Ma noi abbiamo visto già tutto cover art

Ma noi abbiamo visto già tutto

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L’ultimo atto della notte di San Lorenzo, a Gaza, non è stato uno spettacolo di stelle cadenti. È stata la luce livida di un’esplosione a illuminare la tenda di Al Jazeera accanto all’ospedale di al-Shifa, dove Anas al-Sharif e altri cinque membri della redazione sono stati uccisi. Un giornalista che aveva trasformato il suo obiettivo in testimonianza quotidiana del genocidio, e che per questo era stato indicato come “bersaglio” da una campagna diffamatoria dell’esercito israeliano. La sua unica arma era la verità, e l’ha pagata con la vita.
Israele sostiene che “si spacciasse per giornalista” e che fosse con Hamas. È la stessa strategia che, da Shireen Abu Akleh in poi, cerca di neutralizzare le voci scomode prima di eliminarle fisicamente. La sequenza è sempre più chiara: prima la delegittimazione, poi il fuoco. La guerra di Benjamin Netanyahu non si limita a radere al suolo Gaza; punta a cancellarne anche la memoria, eliminando chi potrebbe trasmetterla al mondo.
Mentre la fame uccide già cento bambini, mentre gli aiuti vengono colpiti e le “zone sicure” bombardate, il premier israeliano annuncia un’operazione ancora più vasta, ringrazia Donald Trump per il sostegno e respinge come “menzogne globali” le accuse di genocidio. In parallelo, dal 31 agosto, la Global Sumud Flotilla salperà con decine di imbarcazioni per rompere il blocco e consegnare aiuti, sostenuta da attivisti di oltre 44 Paesi.
In fondo, la morte di Anas e dei suoi colleghi dice già tutto: non è un “effetto collaterale” ma il cuore stesso di una strategia che teme i testimoni più delle armi. Ma noi abbiamo visto già tutto.

#LaSveglia per La Notizia

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