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A Gaza la deportazione è già in corso

A Gaza la deportazione è già in corso

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Sono tornati a sparare sugli affamati. Ancora. A Khan Yunis, 74 morti e oltre 200 feriti — alcuni in condizioni disperate — mentre aspettavano un carico di aiuti umanitari. Poche ore dopo, le cifre diventano più spaventose: almeno 300 tra uccisi e feriti. Un’altra strage, un altro silenzio internazionale.
La distribuzione del cibo è diventata un’arma non solo nella sua scarsità, ma nella sua mappa: quattro centri di distribuzione per oltre due milioni di persone, tutti collocati strategicamente per forzare la popolazione verso sud. Per ricevere aiuti, i palestinesi devono spostarsi chilometri tra macerie e mine, in piena zona militare. E spesso, come ieri, devono morire per un sacco di farina.
Il piano è dichiarato: “riceveranno aiuti solo se non torneranno nei luoghi da cui provengono”, ha detto Netanyahu in una riunione riservata della Commissione Esteri e Difesa della Knesset l’11 maggio. L’obiettivo è svuotare il nord di Gaza. E poiché i trasferimenti non stanno funzionando come previsto, l’escalation è la risposta. Bombardare, affamare, sparare: costringere alla fuga.
Nel frattempo, si consolidano le cosiddette “zone di concentrazione”: tre porzioni di terra, senza servizi, senza acqua, senza riparo. Se il piano andrà a compimento, 2 milioni di persone saranno stipate nel 40% del territorio della Striscia, con una densità di oltre 15.000 persone per chilometro quadrato. Il termine tecnico è “concentration zones”, usato dallo stesso esercito israeliano. Il nome storico, purtroppo, lo conosciamo: deportazione.
La deportazione è già in corso. L’Europa tace, gli Stati Uniti firmano assegni.

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