Ep. 80: Giovanni Durbiano – Architettura come pratica pubblica e cultura torinese cover art

Ep. 80: Giovanni Durbiano – Architettura come pratica pubblica e cultura torinese

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In questo episodio di *Torino e Cultura* ho incontrato Giovanni Durbiano, architetto e docente del Politecnico di Torino. La sua storia è quella di un professionista che non ha mai lasciato Torino e che proprio da questo radicamento trae la capacità di leggere la città dall’interno, tra cantieri, musei, vincoli istituzionali e trasformazioni culturali.Il legame con la cultura nasce presto, al liceo, quando insieme al compagno di banco Alessandro Heffler realizza cartoni animati e corti sperimentali. Notati da Steve Della Casa, vincono un premio al Torino Film Festival con *I Tuffi*. Segue un viaggio a Madrid con altri giovani artisti torinesi — da Alessandro Baricco a Mimmo Calopresti — che gli fa intuire quanto la cultura sia soprattutto incontri e occasioni.Poi arriva un momento decisivo: l’incontro con Luca Fiore, disegnatore di talento. «Lui era davvero un artista, io no», ricorda Durbiano. È la consapevolezza che lo spinge a scegliere l’architettura e a vivere l’università con serietà, trovando nel docente Roberto Gabetti un modello di architetto-intellettuale capace di dare forma a una visione del mondo.Con il tempo, però, Durbiano prende le distanze da quel modello: la realtà contemporanea non permette più di basare un progetto sull’autorevolezza del singolo. Decisivo è anche il dialogo con il filosofo Maurizio Ferraris, che lo porta a pensare che siano gli oggetti stessi a produrre effetti, non solo le intenzioni dei progettisti. Nel 2012 fonda lo studio con Alessandro Armando e Manfredo Di Robilant, costruito su questa idea di architettura “menautoriale” e strategica.Da lì in avanti si confronta con alcuni dei luoghi più iconici di Torino — dal Palazzo Reale a Palazzo Carignano, dal Borgo Medievale al Museo regionale di scienze naturali — imparando a gestire l’imprevedibilità dei cantieri pubblici: cambi di amministrazioni, vincoli della soprintendenza, persino la scoperta di una necropoli romana sotto un pavimento radiante.Un caso emblematico è il progetto per il parco archeologico delle Torri Palatine. Lì la scelta non è stata quella di imporre un segno architettonico nuovo, ma di restituire il luogo come giardino aperto, capace di adattarsi a usi e significati diversi. Non erano i turisti a viverlo, ma comunità di migranti che vi proiettavano memorie di altre rovine. Un esempio concreto di come l’architettura debba riconoscere l’imprevedibile e trasformarlo in valore.Per Durbiano l’architettura è soprattutto pubblica e clinica: pubblica perché riguarda chi attraversa e percepisce lo spazio, clinica perché ogni luogo richiede un approccio unico. È un cantiere sempre aperto, soggetto a condizioni imprevedibili, ma anche una promessa progettuale che deve rimanere coerente e raccontabile.C’è infine una lezione che lo accompagna dagli anni dei cartoni animati: non prendersi mai troppo sul serio. «La nostra vita professionale può essere figlia di occasioni, in cui conta poco anche il merito e contano invece la fortuna, gli incontri», dice. È lo sguardo di chi riconosce che ogni opera è sempre il frutto di una costruzione collettiva.Così il racconto di Giovanni Durbiano diventa anche il ritratto di Torino: un laboratorio permanente in cui cultura, storia e futuro si intrecciano, e in cui l’architettura si misura con la sfida di restare fedele a se stessa senza smettere di adattarsi al mondo che cambia.

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