• Ep. 81: Casa Fools - Luigi Orfeo - Opera e teatro come missione di riscatto sociale
    Oct 2 2025

    Luigi Orfeo è nato e cresciuto nell'area nord di Napoli, a Scampia, e il suo incontro con il teatro è stato quasi accidentale. "Io devo ringraziare tantissimo una parrocchia che fra le varie cose che aveva, aveva un campo di calcetto perché a me lo teatro non portava proprio niente, io giocavo a pallone," racconta con sincerità. Ma quella stessa parrocchia ospitava una compagnia amatoriale che prendeva il teatro come "un impegno serio," e il giovane Luigi rimase incantato guardando le loro prove. A dieci anni aveva già visto quasi tutte le commedie di Eduardo dal vivo, finché non decise di provare a partecipare. Il ricordo è nitido: "Davanti a Filumena Marturano piangevo, ero estasiato."A quattordici anni scrisse il suo primo spettacolo teatrale, che sua madre conserva ancora "col titolo colorato con i pennarelli." Da lì iniziò a fare teatro "come la cosa più naturale del mondo, cioè non sapevo niente del teatro, io lo facevo perché lo facevo e basta." Questo atteggiamento spontaneo è rimasto per tutta la vita: "Io faccio teatro e basta. Sì, poi ho studiato per farlo meglio." Gli studi lo portarono alla Silvio D'Amico, dove incontrò Stefano durante i provini. Da allora, vent'anni insieme nell'avventura dei Fools.Ma la vera rivelazione che ha segnato il percorso artistico di Luigi è arrivata attraverso l'opera lirica. Dopo aver studiato regia operistica, nel 2015 gli offrirono di dirigere la Tosca. "Esaltatissimo accetto, attacco, chiamo mia madre e dico: mamma che bellezza faccio la regia di Tosca." La risposta fu disarmante: "E chi è Tosca?" pensando che fosse una persona. "Io là ho capito la profonda ingiustizia che c'è nel divario culturale."Per Luigi, l'opera lirica rappresenta qualcosa di unico: "È forse la più grande invenzione artistica del genere umano, perché dentro l'opera ci sono tutte le arti che l'umano ha inventato, tutte in un equilibrio perfetto." La musica ha un potere particolare: "Ti pervade prima ancora che arrivi il senso, tu ti trovi a piangere prima ancora di capire perché." Nonostante i suoi successi internazionali - è stato probabilmente il più giovane regista d'opera italiano ad allestire un'opera completa in Medioriente, nell'anfiteatro romano di Amman - qualcosa non andava. Vedeva "gente impellicciata" a teatro mentre "persone che invece ne avrebbero tratto un giovamento incredibile non sapevano niente di tutta quella bellezza."La diagnosi è chiara: "L'opera è un'arte popolare che abbiamo fatto diventare un'arte elitaria." Un'arte che appartiene apparentemente solo "a chi se lo può permettere, sia economicamente che intellettualmente. Cosa assolutamente inverosimile," perché Rigoletto "è stata scritta per sobbillare il popolo e il popolo grazie a Rigoletto ha cominciato a incazzarsi col potere."Da questa consapevolezza è nato Opera Pop, lirica raccontata ad arte, un ponte tra quest'arte e le persone che non solo non ne sanno niente, ma "non ne vogliono sapere niente." Il progetto, iniziato dal vivo e poi trasferito sui podcast durante il Covid, è diventato probabilmente il podcast più ascoltato d'opera lirica in Italia. Luigi ha raccontato opere ovunque: "Dal teatro lirico ufficiale fino a un prato in un orto con le galline sotto i piedi, ma ti dico con le galline sotto i piedi."Il Covid ha insegnato due lezioni fondamentali: "Uno, al potere non gliene frega niente della cultura. Se sparisce è pure meglio, ci levano pensieri. Due, sottostima quanto invece al pubblico, alle persone, questa roba qua piace. Piace perché li unisce, piace perché li fa stare insieme."La missione di Luigi e dei Fools è chiara: diffondere cultura, bellezza e attraverso queste "cercare un modo per ristabilire e creare legami fra le persone." Il successo costante dal Covid in poi non è casuale: "Non perché siamo fighi, perché rispondiamo a un bisogno reale."

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    8 mins
  • Ep. 81: Casa Fools - Stefano Sartore - Dal palco alla strada, la cultura invade Vanchiglia
    Oct 2 2025

    Stefano Sartore è nato nella provincia di Torino, ma il suo percorso verso Casa Fools è passato per Roma. Nel 2004 si è trasferito nella capitale per studiare all'Accademia d'Arte Drammatica Silvio D'Amico, dove ha incontrato Luigi, il suo futuro socio. "Siamo andati a vivere insieme per caso e nelle stanze di questa casa che abbiamo preso in affitto il primo anno con altri ragazzi è nato il progetto Fools," racconta Sartore. All'epoca era semplicemente "una scusa per degli attori di mettersi intorno ad un letto a leggere dei testi." Da lì sono partiti i primi lavori, hanno gestito un teatro a Roma, ma dopo qualche anno hanno sentito il bisogno di cambiare."Roma ci stava stretta o troppo larga, perché Roma è veramente una metropoli ed è invivibile," spiega Sartore. "Abbiamo deciso di spostarci verso un centro un pochino più a misura d'uomo, in cui la qualità della vita potesse essere anche un pochino più gradevole." Durante le tournée, Stefano studiava ogni città, cercava di capire se fosse un posto dove la cultura potesse crescere. Portava avanti progetti anche a Torino, faceva venire i compagni da Roma. "Alla fine, dopo tutta questa indagine, ci siamo resi conto che Torino era una città che offriva molto. In quel periodo era veramente un arco crescente per la cultura, un terreno molto fertile."L'incontro con Roberta è stato determinante. Cercavano attrici del posto per i primi spettacoli. "Dopo aver lavorato un po' con Roberta, ci siamo guardati e ci siamo detti: questa ragazza, oltre a essere molto brava sulla scena, ha delle caratteristiche interessanti." L'hanno coinvolta nella realtà che è diventata "a tutti gli effetti una nostra realtà di tutte e tre."La filosofia di Casa Fools nasce da un'esigenza profonda. "Questo mestiere purtroppo molto spesso ti trovi in situazioni in cui partecipi a un progetto stretto come può essere uno spettacolo ma non c'è una progettualità lunga," riflette Sartore. "Gli attori sono anche molto spesso un po' egocentrici, in cui non si riesce a creare veramente un rapporto. Noi quello che abbiamo sempre cercato di fare è creare una relazione vera." Quando hanno aperto il teatro, "c'è una enorme comunità che ha aderito a questa cosa, cioè che vuole trovare nel teatro un po' un modo di entrare in connessione con le altre persone."Sartore rivela di essere stato lui, tra i tre soci, a insistere per prendere lo spazio teatrale. Ormai vive tra Torino e la Francia per motivi d'amore, ma quando Luigi e Roberta gli hanno parlato della proposta, ridendo, ha detto: "Ma ragazzi si deve fare."La svolta è arrivata con il Festival delle Arti Popolari. Le feste di inaugurazione stagionale sono cresciute progressivamente: dalla piazzetta Santa Giulia alla strada davanti al teatro. "Ci siamo detti: il teatro non ci basta più, cioè queste quattro mura non ci bastano più. La cultura deve esplodere, ci deve essere questa esplosione in strada." Il primo anno era un solo giorno, poi due, quest'anno cinque giorni con il tema della "ricreazione" - intesa sia come pausa che come ricostruzione. "L'idea che volevamo passare era proprio: lo spazio è vostro, dovete prendervelo, dovete impossessarvene e farlo vostro."L'ultimo festival ha visto la strada piena di persone dalle 10 di mattina alle 11 di sera. "Alla sera siamo saliti sul palco per presentare i gruppi finali e vedevi tutta una testa fino in fondo, fino a Corso Regina ed era una meraviglia." La soddisfazione è palpabile: "Vedere il teatro pieno, vedere la strada invasa, è proprio qualcosa che ti nutre e ti dice: ha un senso fare questa cosa."Non mancano però le difficoltà. Quest'anno hanno dovuto affrontare persino minacce di morte da un vicino infastidito: "Vi voglio morti! Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri." Ma nemmeno questo ha rovinato la giornata. "Già a metà giornata questo era dimenticato perché veramente vedere tutte queste persone che aderiscono a questa festa ti riempie il cuore."

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    10 mins
  • Ep. 81: Casa Fools - Roberta Calia - Teatro partecipativo che trasforma gli spazi in comunità
    Oct 2 2025

    Nel cuore di Vanchiglia, nascosto all'interno di un condominio torinese, si trova uno spazio teatrale che sta ridefinendo il rapporto tra cultura e cittadinanza. Casa Fools, con i suoi 85 posti, rappresenta molto più di un semplice teatro: è un esperimento sociale di partecipazione culturale che da sette anni costruisce comunità attraverso la condivisione delle scelte artistiche.Roberta Calia, attrice e codirettrice artistica di Casa Fools, racconta una storia che inizia nel 2010, quando incontrò una compagnia appena arrivata da Roma che cercava un'attrice. "Sono andata a fare il provino e ho conosciuto i Fools. Dovevano essere i miei compagni di viaggio per una semplice avventura di una produzione e invece da allora non ci siamo più lasciati."L'occasione di rilevare uno spazio si presentò nel 2018, quando il Teatro della Caduta propose di passare il testimone. La reazione iniziale fu un rifiuto: "Ci sembrava che avrebbe arrestato la nostra attività di compagnia di giro." Ma uno dei tre soci ebbe un'intuizione che cambiò tutto: "Lo spazio è proprio quello che ci serve."Così nacque Casa Fools. La scelta del nome riflette una visione precisa: "Il nostro desiderio era che le persone si sentissero a casa, che abitassero un luogo, quindi non solo spettatori, non fruitori di un prodotto culturale, ma persone che abitano uno spazio." Per Calia e i suoi soci, il teatro è sempre stato "uno strumento, non un fine, ma il mezzo per ragionare sulle cose e per stare insieme alle persone."Questo concetto si manifesta concretamente attraverso il Collettivo Cartellone Condiviso. Casa Fools apre una call che riceve centinaia di candidature (quest'anno oltre 350), ma la selezione degli spettacoli non viene fatta solo dalla direzione artistica. "Condividiamo con gli spettatori e le spettatrici la direzione artistica," spiega Calia. Il collettivo, composto da più di 30 persone, include una straordinaria varietà di profili: studenti universitari, pensionati, ingegneri, medici, professori.La diversità genera dibattiti appassionati. "Quando uno spettacolo vale la pena, si accendono anche delle discussioni belle, belle calde, quasi al limite della lite. È bello vedere persone che tifano per uno spettacolo teatrale, una cosa che ha del surreale." La paura di lasciare il controllo c'è sempre: "Chissà cosa verrà fuori quest'anno. Perché lasciare il controllo fa anche paura." Eppure, dopo sette anni, le programmazioni si sono sempre rivelate "super interessanti, super variegate."Il collettivo porta con sé anche il concetto di responsabilità condivisa. "Prendersi una responsabilità è un concetto che nella nostra epoca risuona un po' come un peso," osserva Calia, "invece questa responsabilità noi cerchiamo di intenderla in senso positivo."All'apertura nel 2018, l'accoglienza fu tiepida. "Siamo stati accolti dal clima tipico torinese, con diffidenza, tipo 'guardiamo un po' questi chi sono e che cosa combinano'." Poi la pandemia costrinse alla chiusura per 15 mesi. Ma da questa crisi emerse un cambiamento: "Gli operatori culturali nella difficoltà sono stati costretti a mettersi insieme." Nacquero dialoghi e coprogettazioni che continuano ancora oggi."Abbiamo proprio avvertito un cambio di passo fra la Torino culturale del pre-pandemia e quello che succede da allora fino ad oggi. Ed è per me un passaggio molto positivo che Torino è riuscita a fare." Oggi Casa Fools è fortemente radicata a Vanchiglia, dimostrando che la cultura partecipativa può davvero trasformare non solo uno spazio, ma un'intera comunità.

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    10 mins
  • Ep. 80: Giovanni Durbiano – Architettura come pratica pubblica e cultura torinese
    Sep 8 2025

    In questo episodio di *Torino e Cultura* ho incontrato Giovanni Durbiano, architetto e docente del Politecnico di Torino. La sua storia è quella di un professionista che non ha mai lasciato Torino e che proprio da questo radicamento trae la capacità di leggere la città dall’interno, tra cantieri, musei, vincoli istituzionali e trasformazioni culturali.Il legame con la cultura nasce presto, al liceo, quando insieme al compagno di banco Alessandro Heffler realizza cartoni animati e corti sperimentali. Notati da Steve Della Casa, vincono un premio al Torino Film Festival con *I Tuffi*. Segue un viaggio a Madrid con altri giovani artisti torinesi — da Alessandro Baricco a Mimmo Calopresti — che gli fa intuire quanto la cultura sia soprattutto incontri e occasioni.Poi arriva un momento decisivo: l’incontro con Luca Fiore, disegnatore di talento. «Lui era davvero un artista, io no», ricorda Durbiano. È la consapevolezza che lo spinge a scegliere l’architettura e a vivere l’università con serietà, trovando nel docente Roberto Gabetti un modello di architetto-intellettuale capace di dare forma a una visione del mondo.Con il tempo, però, Durbiano prende le distanze da quel modello: la realtà contemporanea non permette più di basare un progetto sull’autorevolezza del singolo. Decisivo è anche il dialogo con il filosofo Maurizio Ferraris, che lo porta a pensare che siano gli oggetti stessi a produrre effetti, non solo le intenzioni dei progettisti. Nel 2012 fonda lo studio con Alessandro Armando e Manfredo Di Robilant, costruito su questa idea di architettura “menautoriale” e strategica.Da lì in avanti si confronta con alcuni dei luoghi più iconici di Torino — dal Palazzo Reale a Palazzo Carignano, dal Borgo Medievale al Museo regionale di scienze naturali — imparando a gestire l’imprevedibilità dei cantieri pubblici: cambi di amministrazioni, vincoli della soprintendenza, persino la scoperta di una necropoli romana sotto un pavimento radiante.Un caso emblematico è il progetto per il parco archeologico delle Torri Palatine. Lì la scelta non è stata quella di imporre un segno architettonico nuovo, ma di restituire il luogo come giardino aperto, capace di adattarsi a usi e significati diversi. Non erano i turisti a viverlo, ma comunità di migranti che vi proiettavano memorie di altre rovine. Un esempio concreto di come l’architettura debba riconoscere l’imprevedibile e trasformarlo in valore.Per Durbiano l’architettura è soprattutto pubblica e clinica: pubblica perché riguarda chi attraversa e percepisce lo spazio, clinica perché ogni luogo richiede un approccio unico. È un cantiere sempre aperto, soggetto a condizioni imprevedibili, ma anche una promessa progettuale che deve rimanere coerente e raccontabile.C’è infine una lezione che lo accompagna dagli anni dei cartoni animati: non prendersi mai troppo sul serio. «La nostra vita professionale può essere figlia di occasioni, in cui conta poco anche il merito e contano invece la fortuna, gli incontri», dice. È lo sguardo di chi riconosce che ogni opera è sempre il frutto di una costruzione collettiva.Così il racconto di Giovanni Durbiano diventa anche il ritratto di Torino: un laboratorio permanente in cui cultura, storia e futuro si intrecciano, e in cui l’architettura si misura con la sfida di restare fedele a se stessa senza smettere di adattarsi al mondo che cambia.

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    22 mins
  • Ep. 79: Valentina Pozzi - Cinema indipendente e comunità creative
    Jul 8 2025

    Valentina Pozzi aveva un sogno di camice bianco e bisturi, ma il destino le ha messo davanti una macchina da presa. La regista torinese di 42 anni racconta come un incontro con Libero De Rienzo abbia stravolto i suoi piani: "Volevo fare chirurgo plastico e poi ho conosciuto Libero che mi ha detto dai vieni qualche giorno giù a Roma con me. Sono rimasta sei anni là e abbiamo prodotto insieme un film."L'esperienza sul set di "Sangue", primo film di De Rienzo come regista, è stata la sua scuola di vita: "Ho imparato tutto quello che so perché ogni settimana di lavorazione la facevo in ogni reparto." Un cinema "sporco", fatto di imperfezioni e collettività, che sfida le gerarchie tradizionali: "Eravamo un gruppo di zingari del cinema e di operai, ci siamo ritrovati a occupare questo set per sovvertire quelle modalità gerarchiche cementate nel cinema romano."Dopo il ritorno a Torino, Valentina ha costruito un percorso tra videoclip e progetti artistici, collaborando con Boosta, Niccolò Fabi e Willy Peyote. Il videoclip "Io sono l'altro" con Fabi rappresenta un momento di svolta: quello che doveva essere un progetto complesso si è trasformato in intimità autentica. "Ricordo di aver detto a Niccolò: cantala a me, guardami e cantala." Da quella connessione è nato un video che ha commosso tutti sul set.Fabi le ha insegnato la flessibilità creativa: "Mi ha sempre detto che il fatto che decidiamo di far partire le cose in un modo non vuol dire che non dobbiamo avere l'intelligenza di renderci conto quando assumono una forza loro più potente."La poetica di Valentina è caratterizzata da elementi ricorrenti: "Nella maggior parte dei miei video ci sono o i miei cani o degli animali oppure c'è il vento." Il vento diventa metafora di trasformazione: "È un movimento utopico, un moto a luogo, come lo definiscono nell'antica Grecia, il concetto in cui ci dovremmo spostare tutti nella vita."Centrale è la distinzione tra guardare e vedere: "Siamo tutti incentrati sul guardare le cose, ma a volte non le vediamo. È una differenza semantica minima ma gigantesca." Questo si riflette nella predilezione per il cinema imperfetto, dove sfocatura e imperfezione diventano strumenti espressivi.Torino è il palcoscenico dei suoi lavori: "Il grigio torino è una tavolozza incredibile, se hai una superficie piatta puoi farci di tutto." La sua vita artistica si intreccia con quella imprenditoriale attraverso il locale Barbiturici, gestito da 11 anni: "È diventato un catalizzatore di cose artistiche, fa parte del pacchetto Illegal Film."L'Atletico Barbiturici, squadra sportiva che ha fondato, rappresenta la sua filosofia comunitaria: "Ci siamo stufate di fare le cose da soli, vogliamo qualcuno che venga con noi senza giudizio."Il progetto più recente è "Sangue Nostro", documentario dedicato al metodo di De Rienzo, realizzato con Elio Germano: "Racconta la volontà di creare qualcosa insieme in maniera libera e consapevole." Il cerchio che si chiude, celebrando il cinema come atto collettivo per vedere il mondo da angolazioni diverse.

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    28 mins
  • Ep. 78: Mathieu Jouvin - Il sovrintendente francese che ha rilanciato il Teatro Regio
    Jun 24 2025

    Mathieu Jouvin, sovrintendente del Teatro Regio da tre anni, racconta la rinascita di una delle istituzioni culturali più prestigiose d'Italia. Il dirigente francese ha trasformato un teatro in crisi in un punto di riferimento internazionale per l'opera.La passione nasce a Montpellier, dove il nonno faceva la coda all'Opéra Garnier per i biglietti della Callas. A dieci anni vede Carmen, ma il colpo di fulmine arriva a diciassette con Cavalleria Rusticana: "Ho percepito emozioni che non avevo mai percepito nell'arte, un'emozione pazzesca". Da autodidatta, sviluppa un amore per la scoperta che caratterizzerà la sua direzione: "Mi piace molto scoprire e ogni stagione cerchiamo di portare cose meno conosciute per incuriosire".Dopo studi in economia, uno stage all'Opera di Parigi "mi salva la vita". A 24 anni gestisce il budget di 750 persone, imparando ogni mestiere del teatro: "Va bene gestire le cifre, ma se non sai cosa c'è dietro non capisci nulla". Seguono nove anni all'Opera di Lione, dove diventa "migliore opera al mondo", e quattro al Théâtre des Champs-Élysées.L'arrivo a Torino nel 2022 rappresenta la sfida più grande. Il Regio aveva problemi economici e commissariamento. "Mi sono messo nella lavatrice", ammette, descrivendo mesi intensi di riorganizzazione totale. "Il teatro aveva bisogno di essere rimesso a posto, mancavano tante figure apicali", mentre doveva garantire la continuità artistica e programmare il futuro.La strategia richiedeva equilibrio estremo: "Era una tensione permanente tra proporre qualcosa di originale, sapendo che non eravamo attrezzati. Era giocare con il limite". I primi mesi furono difficili, con "telefonate anonime, rumori" e clima mediatico ostile.Il successo arriva gradualmente: premio Abbiatti per Juve, poi per Manon. "Questo ha dimostrato che qualcosa stava succedendo". L'innovazione delle anteprime giovani diventa un fenomeno: "Vedere tutti questi giovani che si sono appropriati il teatro è bellissimo", riflettendo la filosofia "Il Regio è di tutti".La programmazione segue sempre un filo conduttore. "L' Amour Tojours" ruotava intorno a Puccini e l'amore, "La meglio gioventù" sui giovani. La nuova stagione "Rosso" esplorerà "questa tensione tra desiderio e violenza", citando Malraux: "Cerco questa regione dell'anima dove il male si oppone alla fratellanza".Jouvin ama profondamente Torino, citando Eco: "Senza l'Italia Torino sarebbe comunque Torino". Apprezza la modestia e il rapporto serio con il lavoro: "È come un segreto nascosto, un gioiello conosciuto solo da chi sa". La città permette libertà artistica: "Ci sentiamo molto liberi di proporre quello che vogliamo".Oggi la trasformazione è completa: "Non ho più bisogno di intervenire sulla vita quotidiana. Siamo riusciti a rimettere l'organizzazione a posto". Il pubblico dimostra fiducia anche verso titoli meno noti, segno di una rinascita autentica che ha restituito al Teatro Regio la sua identità e prestigio internazionale.

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    50 mins
  • Ep. 77: Guido Catalano - Dal palco alla pagina, trent'anni di poesia vissuta
    Jun 16 2025

    Guido Catalano, 54 anni, poeta torinese in attesa del primo figlio, ha trasformato le difficoltà personali in una professione unica: il "poeta professionista vivente". Trent'anni di carriera che partono dalla musica con il gruppo "Pikkia Froyd" e arrivano ai grandi palchi del Colosseo e dell'Alcatraz milanese."In realtà prima volevo fare il cantante", racconta Catalano. "Io scrivevo i testi e cantavo male, ma scrivevo dei testi divertenti". Quando il gruppo si sciolse, quella passione per il palco rimase: "Mi piaceva questa cosa di stare su un palco e raccontare delle storie". Il passaggio alla poesia fu naturale: "La poesia è autonoma, non dovrebbe avere bisogno della musica".Iniziò nei locali torinesi di fine anni Novanta, partendo dal Caffè Liber. "Andavo dal gestore e c'era un reading di poesia, lui mi guardava male", ma gli eventi funzionavano. Il primo libro, "I cani hanno sempre ragione" (2000), partì con 300 copie. Il titolo stesso illustra la sua poetica: "I titoli li prendo spesso così, cioè li sento, arrivano", nato da una frase casuale di un'amica.La sua poesia si caratterizza per un verso "liberissimo, con una chiave ironica, alle volte comica". Ma precisa: "questa cosa qua non l'ho concepita a tavolino, è venuto naturale". L'origine è terapeutica: "ho iniziato a scrivere poesia per una sorta di autopsicanalisi". Le difficoltà relazionali giovanili divennero materiale poetico: "La difficoltà base era che non trovavo una fidanzata e ero in grave difficoltà con il rapporto con l'altro sesso".Questa sincerità non fu sempre apprezzata. "Per molti anni sono stato bistrattato dai miei colleghi che mi considerano più un cabarettista". Ma rivendica la scelta: "ho scritto una poesia che si chiama Vado a capo a cazzo, per dire, ragazzi, lo ammetto, ma ho bisogno di questa cosa".Nel tempo la sua scrittura è evoluta. Se prima scriveva "una poesia in tre minuti", oggi può impiegare "quattro o cinque giorni". Il processo creativo rimane misterioso: immagina "una specie di portale" che si apre imprevedibilmente. "Succede quando mi succedono cose, cose belle ma spesso anche brutte, lutti".Internet ha rivoluzionato la sua comunicazione. "Il grande passo è stato il blog" nel 2004-2005. "Mi sono detto che scrivo una poesia sul mio blog e potenzialmente il Papa può leggerla". I social hanno amplificato questa possibilità, anche se oggi "mi diverto meno" per i costi promozionali e il clima conflittuale.Curiosamente usa ancora un Nokia 3310: "Sono pigro e non ho voglia di passare allo smartphone", anche se ammette che presto dovrà cedere per praticità.La carriera live è stata fondamentale. Ha fatto "230-240 spettacoli all'anno, tutto da solo", viaggiando in treno con un trolley di libri. "È stata una gavetta incredibile", contrapposta agli artisti attuali che "partono da 0 a 100 in pochissimi secondi".Bukowski è stato un maestro: "mi ha fatto capire che esiste una poesia diversa". Recentemente ha creato "Catalano versus Bukowski", riscoprendo l'aspetto comico del poeta americano.In attesa del figlio, riflette sui rischi creativi. La sua agente lo avverte: "stai attento" nel scrivere sulla paternità. Il pericolo è la banalità: "cadere nella banalità scrivendo d'amore è facilissimo".Per ora legge libri di puericultura, "non per diventare esperto ma perché mi fa star bene". E conclude con il suo umorismo: "diventerò un grandissimo puericultore e scriverò libri su questo, poi diventerò ricco". L'autoironia, marchio di trent'anni di carriera, resiste anche alla trasformazione più grande della sua vita.

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    47 mins
  • Ep. 76: Maurizia Rebola - Dal Salone del Libro alle OGR Torino, una vita nella cultura torinese
    Jun 9 2025

    Maurizia Rebola, direttrice delle OGR Torino, racconta una carriera costruita attraverso incontri umani e passione per la cultura. Nata a Carignano negli anni '70 da genitori attivisti del PCI, cresce in una famiglia che le trasmette valori di impegno civile e determinazione. La perdita del padre a 13 anni sul Monviso non spezza il suo legame con la montagna ma la rafforza nella determinazione.Il trasferimento a Torino per l'università nei primi anni '90 segna la scoperta del fermento culturale cittadino. "Mi ricordo gli anni dei Murazzi, gli anni in cui sono nati Africa Unite, Subsonica", racconta, descrivendo anni formativi in cui studio e vita culturale si fondevano.L'ingresso nel mondo professionale avviene per caso nel 1995, come telefonica al Salone del Libro. La sua precisione e iniziativa colpiscono Guido Accornero, avviando una carriera ventennale nell'editoria. Dopo l'esperienza da dipendente, sceglie di diventare consulente spinta da "quella smania di voler vivere mille vite".Fonda la società "Eventualmente" con Palma Daniela Tarantino, lavorando tra Torino e Roma su progetti culturali nazionali. Il passaggio al Circolo dei Lettori rappresenta una maturità professionale, dove incontra Luca Beatrice che diventa "un grande presidente, un grandissimo amico, un fratello".Momento cruciale arriva nel 2017 quando Sergio Chiamparino la chiama per salvare il Salone del Libro dal fallimento. "Butto sempre il cuore oltre l'ostacolo", spiega, riuscendo a organizzare l'evento in cinque mesi e risanarlo finanziariamente.L'approdo alle OGR Torino nel 2020 rappresenta l'ultima evoluzione. "Mi sono rimessa a studiare", confessa, dovendo confrontarsi con innovazione tecnologica e arte contemporanea. Le OGR Torino sono "un pezzo delle sorti di questa città", dove si sperimenta il connubio arte-tecnologia, creando il neologismo "Art Technology" inserito in Treccani.La sua visione di Torino è di "una città perennemente in cambiamento, che non si arrende mai". Non crede in trasformazioni radicali ma in "crescita graduale, costante", sostenuta da fermento culturale che nasce spontaneamente.La filosofia lavorativa si basa su "forza del sorriso, gentilezza, rispetto". È convinta che "vincano sempre rispetto, lealtà e sorriso", principi che guidano un percorso fatto di incontri significativi con personalità come Umberto Galimberti, Yehoshua, David Grossman ed Eduardo Galeano.La storia di Maurizia simboleggia la capacità di Torino di reinventarsi mantenendo la propria identità culturale, trasformando le ex officine ferroviarie in spazi d'avanguardia attraverso passione, competenza e valori umani solidi.

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    32 mins