Torino e Cultura cover art

Torino e Cultura

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By: Carlo De Marchis
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Podcast sulle persone che fanno cultura a Torino. Ideato e prodotto da Carlo De Marchis.Carlo De Marchis Social Sciences
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  • Ep. 75: Carola Allemandi - Fotografia tra visione e pensiero
    Jun 2 2025

    Dal caso alla passione: quando l'immagine diventa linguaggio del pensieroIl percorso di Carola Allemandi nella fotografia inizia per caso a 19 anni, quando scopre in cantina la vecchia camera oscura del padre. "Non mi ha mai insegnato nulla, non abbiamo avuto un tipo di rapporto maestro allieva", racconta la fotografa torinese, il cui apprendistato è nato dall'incontro fortuito con Piero Ottaviano durante una serata al bar. "Mi diceva sono rimasto senza assistente, se ti va di provare colgo l'occasione".Quella collaborazione di tre anni è diventata una scuola pratica completa: "Ho avuto modo di avere una scuola molto ampia sul campo, lavorando a bottega fondamentalmente". Un percorso che l'ha portata a sviluppare sia il lavoro commerciale, oggi affiancata dalla compagna Davies Zambotti, sia una ricerca personale attraverso mostre e collaborazioni con gallerie come la torinese Dr. Fake Cabinet.Nel 2021 si apre una dimensione inaspettata: la scrittura sulla fotografia. Segnalata da un'amica (Annalisa Ambrosio) alla rivista "00", Allemandi scopre "il privilegio di commentare, dare una lettura ai lavori di altri autori". Il suo approccio è dichiaratamente non accademico: "Non mi pongo mai né da critica né da storica della fotografia".Il suo metodo parte dall'esperienza visiva diretta: "A me interessa la fotografia come esperienza visiva innanzitutto". La scrittura diventa "molto fotografica", basata sulla visione dell'immagine prima di ogni contestualizzazione storica. "Il rapporto con l'immagine io lo vivo sempre come un innamoramento, l'innamoramento funziona e si basa su quello che vedi".Il primo progetto personale, dedicato al paesaggio urbano notturno dal 2018, racchiude i temi centrali della sua ricerca: sintesi e astrazione. "Dentro la fotografia è sempre il sacrificio di parti in favore di un unico frammento", spiega, descrivendo come cancelli "col nero tutta una parte di architettura del paesaggio" per lasciare "soltanto lo scheletro luministico disegnato da questi lampioni". Il risultato trasforma Torino in immagini universali che "fluttuano in qualcosa che non ha vera concretezza".Torino rappresenta per Allemandi un contesto privilegiato, una città "sempre stata fotografica fin dal XIX secolo" e oggi ricca di istituzioni come Camera, festival come Liquida ed Exposed. Tuttavia invita a un maggiore approfondimento teorico: "Io invito a mettere sul piatto un'altrettanto pressante attività anche teorica sulla fotografia".Guardando al futuro, la sua visione va oltre gli aspetti tecnologici: "Quello che a me interessa di più è la sua divulgazione teorica, riuscire a trasmettere gli insegnamenti del suo linguaggio". Per Allemandi, fotografare significa "vedere, quindi anche pensare, mettersi di fronte al mondo e cercare di interpretare". La sua proposta è rivoluzionaria: riconoscere la fotografia come disciplina umanistica. "La fotografia è considerabile a tutti gli effetti una branca della letteratura e mi piacerebbe vederla nella facoltà di lettere".Il percorso di Carola Allemandi dimostra come la fotografia possa unire dimensione visiva e intellettuale, trasformandosi da semplice pratica artistica a strumento di conoscenza e riflessione critica sul mondo.

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    19 mins
  • Ep. 74: Daniele Ratti - L'imperfezione perfetta: il viaggio fotografico tra pellicola e anima
    May 26 2025

    Daniele Ratti, fotografo torinese e architetto di formazione mai professato, ha iniziato il suo percorso artistico a soli 14 anni con l'acquisto di una Rolleiflex 35. La fotografia è diventata il suo scudo contro la timidezza: "La macchina fotografica è sempre stato uno scudo, attraverso la macchina fotografica riuscivo a fare qualsiasi cosa perché è qualcosa che sta tra te e la persona."Dopo gli studi in architettura, Ratti iniziò a lavorare con i fotografi torinesi Piero Italiano e Maren Ollman: "Non c'erano sabati, non c'erano domeniche, poi si inizia sempre con i matrimoni, la più grande scuola di fotografia che c'è." Uno dei primi compiti ricevuti fu fotografare venti persone non attraenti, nude – un esercizio per "cercare il bello nel brutto" che ha segnato il suo approccio.Nel suo lavoro, Ratti persegue la perfezione consapevole che "la perfezione non esiste. La perfezione ha dentro di sé anche l'imperfezione, e l'imperfezione è quella cosa che dà poi alla fotografia un po' più di anima." Confrontando il suo approccio con quello di Mapplethorpe, tecnicamente impeccabile, sottolinea l'importanza dell'emozione oltre alla tecnica.Nonostante le critiche per la mancanza di uno stile univoco, Ratti alterna liberamente bianco e nero e colore, architettura e ritratti. Il suo legame con la pellicola rimane essenziale: "Nasco con la pellicola, per me ha quel fascino che scatto, sbaglierò, non sbaglierò, sarà come verrà... mi piace anche il fatto di essere limitato, ho 36 scatti, 2 rullini, 3 rullini." Questa limitazione impone una disciplina creativa che valorizza ogni scatto.Per il suo viaggio in Giappone, patria del suo fotografo preferito Shoji Ueda, si impose un limite: "Queste sono le mie 30 pellicole, 20 in bianco e nero, 10 a colore, punto, e me ne devo fare bastare." Una scelta che lo ha soddisfatto pienamente.Sulla dualità tra fotografo e artista, Ratti è pragmatico: "Faccio fatica a considerarmi un artista. Io faccio il fotografo. Voglio fermare quell'attimo, quel momento." Che si tratti di lavori commerciali o progetti personali, il suo approccio rimane coerente.I suoi progetti fotografici seguono tempistiche brevi: "Ho bisogno di nuove emozioni, di stimoli, e qualcosa che mi impegna per tantissimo tempo a volte mi prosciuga." La fase di realizzazione fotografica è concentrata, mentre post-produzione ed esposizione richiedono più tempo.L'11 giugno 2025 inaugurerà alle Gallerie d'Italia a Napoli la mostra "Due cuori una capanna: case e architetture dove sono state immense storie d'amore." Un progetto sviluppato in quattro anni e mezzo, dove la fase fotografica è stata breve: "Il corpus di 38-40 case ci ho messo poco a farlo. Tutto quello che viene dopo richiede molto più tempo."Il suo rapporto con Torino è profondo: "Non sono di Torino, ci vivo benissimo, ha un rapporto qualità contro tutto il resto molto alto, mi ha dato tantissimo." Dopo trent'anni in città, ha costruito una rete di relazioni efficace. "È una città dalle potenzialità immense, manca il passettino in più." Secondo lui, Torino dovrebbe "prendersi più cura delle persone che ci abitano, degli artisti."Sul ruolo della fotografia oggi, Ratti osserva: "Per la prima volta nella storia dell'umanità siamo bombardati da immagini. Non ci sono mai state così tante immagini, così tante storie." Questo comporta superficialità: "Abbiamo una soglia di attenzione minima e devi essere bravo a raccontare quello che fai, per tenere una persona anche soltanto 40 secondi davanti a una fotografia."Nell'epoca della "fast photography", l'aspirazione di Ratti è creare qualcosa di duraturo: "Io vorrei che le fotografie che faccio, non dico per sempre, però che rimanga qualcosa." Con umiltà conclude: "Non lo so se sarò fortunato, se fra vent'anni sarò ricordato o completamente dimenticato, però mi piacerebbe che una fotografia fra 50 anni... che bella questa fotografia, di chi è, poi non si ricorderanno di chi è, ma almeno la fotografia c'è."

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    22 mins
  • Ep. 73: Davide Ferrario - Un percorso non convenzionale tra cinema, letteratura e arte
    May 19 2025

    Davide Ferrario si definisce "un torinese per caso". Cresciuto a Bergamo fino al 1998, oggi è considerato uno dei registi di riferimento di Torino, città che ha raccontato attraverso i suoi film. Nel dialogo con Carlo De Marchis, Ferrario ripercorre il suo percorso professionale e personale, rivelando come casualità, amore e praticità bergamasca abbiano plasmato la sua carriera.La sua formazione inizia negli anni '70 a Bergamo, in un cineforum con 6.000 soci. "Era diventato più che altro un punto d'incontro," racconta, "c'era tutta la New Hollywood, c'era Antonioni, c'era Easy Rider, quindi andavi a vedere quei film lì poi stavi fuori tutta la sera a parlarne." Questa esperienza gli permette di avvicinarsi al cinema sia artisticamente che commercialmente, distribuendo in Italia registi come Wenders e Fassbinder.Negli anni '80, diventa agente per registi americani indipendenti come Spike Lee e Jarmusch. Una svolta arriva nel 1986, quando trascorre due mesi sul set di John Sayles in West Virginia. Osservando il processo di realizzazione, si convince di poter dirigere: "Un film brutto in più lo posso fare anch'io, peggio di quello che vedo non farò." Inizia così la sua carriera con "La fine della notte".Il rapporto con Torino inizia già negli anni '70, quando frequenta la città per ragioni sentimentali. Contrariamente all'immagine di "grigia Torino degli anni di Piombo," lui ne ricorda l'energia: "Io questa città l'amavo molto perché proprio in quel conflitto c'era tanta energia." Rammenta una Torino culturalmente vivace, con la Giunta Novelli che portava la cultura in periferia.La svolta professionale e personale arriva con "Tutti giù per terra" (1997), tratto dal romanzo di Culicchia e interpretato da Mastandrea. Durante le riprese, si innamora dell'assistente scenografa, che diventerà la sua compagna. "È stato l'amore che mi ha portato qua, l'amore che ancora mi tiene ma forse anche tanto altro adesso."Ferrario descrive Torino come "camaleonte": "È una città che ha una forte identità sua ma tu attraversi una strada e cambi completamente quartiere." Nel periodo dei Murazzi, apprezza l'atmosfera della città: "Era davvero una città provinciale in senso positivo, costruivi dei rapporti umani che poi diventavano anche rapporti di lavoro e di creatività."Il legame con la città si cementa con "Dopo mezzanotte" (2004), realizzato con fondi personali, che ottiene successo internazionale. "Se andava male eravamo tutti sotto un trailer e probabilmente adesso non sarei qui a raccontare queste storie."Un aspetto fondamentale del suo approccio è il bilico tra professionalità e dilettantismo. "Io amo molto le persone che sanno fare bene il loro lavoro prima delle chiacchiere," spiega, ma rifiuta l'idea che l'identità di una persona si riduca al mestiere: "Non vuol dire appiattire la persona solo a quello." Questa filosofia gli permette di muoversi tra diversi mezzi espressivi: cinema, letteratura, installazioni.Il suo primo romanzo, "Dissolvenza al nero", nasce nel 1994 come sfida dopo aver letto un bestseller di Crichton. Quattordici anni dopo pubblica "Sangue mio", ispirato alla sua esperienza come volontario in carcere, e nel 2023 esce "L'isola della felicità", una satira su Nauru, minuscola repubblica che rappresenta una metafora della civiltà occidentale.A quasi settant'anni, Ferrario si trova in una fase curiosa della carriera, passando con disinvoltura tra diversi mezzi espressivi. Questa versatilità riflette il suo rifiuto di etichette: "Due cose fuggo come la peste: l'autobiografismo e la psicologia." Preferisce costruire la sua fiction su basi reali, su ricerche o esperienze dirette.Riflessivo sulla mancanza di utopia nel mondo contemporaneo, si considera un figlio degli anni '70: "Noi siamo cresciuti in un paese in cui non c'era il divorzio e c'era il delitto d'onore. Non si deve dimenticare queste robe qua."

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    37 mins

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