Vi cammino una storia con Anderloni cover art

Vi cammino una storia con Anderloni

Vi cammino una storia con Anderloni

By: Gruppo editoriale Athesis
Listen for free

About this listen

Cantastorie “di professione” con il teatro, il cinema e la scrittura, Alessandro Anderloni percorre a
piedi ogni settimana un itinerario della provincia di Verona, dalla Lessinia alle Basse, dal Lago alle colline, nel cuore e nella periferia della città, per farsi voce di leggende, fiabe, fatti storici, personaggi della tradizione locale. Racconta l’anima profonda e antica della terra veronese, senza nostalgie, mostrandone i luoghi, respirandone i profumi, dialogando con i rumori.Gruppo editoriale Athesis
Social Sciences Travel Writing & Commentary
Episodes
  • Preare di Prun
    Nov 22 2025
    Partiva da Fane alle 11 di mattina, la Mariolina. Aveva dieci anni, e nei giorni di vacanza toccava a lei portare da mangiare a suo papà, el Siena, che lavorava nelle Preare di Prun. A mezzogiorno doveva essere di là della valle. Parto anch’io, all’alba, e dalla chiesa di Fane mi infilo giù, ad attraversare le vie di un paese che non ha una piazza, le cui case dai tetti di pietra si distendono sul fianco del vaio. Si chiamano così le incisioni profonde che tagliano la Lessinia verticalmente, più strette di una valle. Questo, per gli abitanti di Fane è il Vaio de Prun, per quelli di Prun il Vaio de Fane, come se nessuno lo volesse. Dall’altra parte, nel primo sole, mi sento guardato dagli occhi neri delle preare. Le hanno sempre chiamate così: Preare di Prun. Forse perché in latino praebere si può tradurre anche cavare, o perché la pietra, quassù, è la pria. A chiamarle Cave di Prun si iniziò in tempi recenti, per il nostro vezzo di italianizzare i toponimi dialettali, come se volessimo liberarci di un passato che ci interessa sempre meno.Il sentiero che scende tra i faggi e i carpini è un ristoro dell’anima. Sento lo scroscio del torrente. L’acqua è chiara, fresca e dolce, parafraso, con le parole del poeta. E penso alla Mariolina che, con le altre bambine di Fane, con le sgalmare di legno scendeva e risaliva il vaio, per nulla spaventata dalla fatica, ché i bambini erano abituati a camminare. E camminando parlavano, giocavano, cantavano, e crescevano, più sani e robusti, forse anche più felici. Nella sporta de paia la Mariolina portava una ramineta con dentro il minestrone o la pastasciutta, un tegamino con patate o broccoli, e poi salado o bóndola o formaio, con du paneti e, in una bottiglia, un po’ di graspia: il vino dei poveri, in questa valle che ora produce e vende vino pregiato ai ricchi di tutto il mondo.Ti viene voglia di correre, sul sentiero che saltella di qua e di là del fosso. Correva la Mariolina, e le capitava così di spandere un po’ di minestra tanto che, arrivata alla fontana della Vallecchia, la allungava con l’acqua, sperando che el Siena non se ne accorgesse. La strada che sale da contrada Castello è delimitata da un lato dalle lastre verticali conficcate a terra, dall’altro dai muri a secco, con pietre incastrate a lisca di pesce. La prima preara che incontro è quella dei Russi, l’altra, custodita con amore dall’Associazione La Malga, del Spadon. Illuminati di taglio da una lama di sole, sui pilastri che sostengono le volte di pietra sono perfettamente leggibili i 73 strati di lastre che la Natura ha fornito all’Uomo già tagliati, pronti per essere estratti e messi in opera. Si tratta di Scaglia Rossa Veneta o lastame del Cretaceo. La chiamano, da secoli, Pietra di Prun, anche se commercialmente funziona di più Pietra della Lessinia.Fa girare la testa pensare che questa pietra si è formata cento milioni di anni fa, quando queste terre erano coperte dalle acque dell’Oceano Tetide, con un impasto di detriti, conchiglie, frammenti di molluschi e altri organismi marini che si depositarono e compattarono sul fondale. Come una spugna, da questi strati l’acqua in milioni di anni fuoriuscì, lasciando a dividerli sottili veli di argilla. I cavatori a ogni strato avevano dato dei nomi di fantasia, ma che rendono bene l’idea: la pietra di qualità era el meion, quella meno pregiata la lóa; quella che si lasciava cavare facilmente era zentil, quella difficile da cavare rabiosa; a seconda della pigmentazione si distingueva el biancon, el rosson e la lóa rossa, a seconda dell’utilizzo la piera da querti, la piera da seciar e la lastina. Gli amici dell’Associazione La Malga hanno recuperato un antico carro con cui buoi e cavalli trascinavano fuori dalle cave le pesantissime lastre di un metro per quattro, e, dentro alla cassetta di legno, gli attrezzi dei cavatori e degli scalpellini: ponte, massete, ponceti e bociarde. C’è anche una lampada a carburo. Quando entro nella cava, la luce calda della tremolante fiamma e l’inconfondibile odore dell’acetilene mi riportano a un tempo irrimediabilmente perduto.Iniziato nell’Età del Ferro, continuato con i Romani, poi nel Medioevo, nel Rinascimento e nel Settecento, l’utilizzo della Pietra di Prun fiorì negli anni Venti, quando in queste cave lavoravano duecento persone, tra cui el Siena, che frequentava anche la scuola per scalpellini di Prun. Alcune cave chiusero negli anni Trenta. Dopo la guerra ci fu una ripresa: serviva pietra per ricostruire Verona. Con l’inizio dell’escavazione a cielo aperto a Sant’Anna d’Alfaedo, negli anni Cinquanta, a poco a poco vennero dismesse, fino alla chiusura definitiva nel 1957.Mi addentro, tra le colonne di una cattedrale di pietra. Brilla alla luce del carburo, in una vascone, l’acqua con cui gli esperti forgiatori tempravano le punte. Sui bancali, così vengono chiamate le pareti, si leggono gli strati delle lastre e le mani dei ...
    Show More Show Less
    19 mins
  • Il brigante Nineta
    Nov 21 2025
    Sulla piazza di Menà si può compiere un viaggio a ritroso nel tempo: la nuova chiesa degli anni Settanta, la vecchia chiesa ottocentesca, ormai in rovina, l’antico oratorio del Cinquecento dedicato a Sant’Anna. Lassù, dalla lanterna del campanile che svetta sulle tre chiese, vengono sette rintocchi di campane a risvegliare un silenzio sospeso tra il qui e ora e qualcosa di lontano e antico. Sono sceso fin quaggiù, nell’ultima propaggine della provincia veronese prima del rodigino, a cercare storie di briganti.La chiamano anche Menà di Vallestrema. Una terra estrema, dunque. Non mi sorprende che su questi campi, tra i canneti delle paludi, lungo gli argini dei canali, al riparo dei pioppeti, si dessero alla macchia briganti i cui nomi sono stati custoditi dall’immaginario popolare, pronunciati e tramandati di racconto in racconto.Era l’inizio dell’Ottocento, il “secolo dei briganti”, e se nel Regno di Sicilia c’era Pasquale Bruno, che ispirò Alexandre Dumas, in Abruzzo Pronio, a Napoli, Sciarpa, Fra Diavolo e il Taccone, nello Stato Pontificio Gasparrone, in Romagna Stefano Pelloni, detto Il Passatore, in Lombardia Paci Paciana e nel veronese non si era ancora spenta la fama del brigante Falasco, vissuto due secoli prima, qui si muovevano Giaron dela Menà, Petiol da Spinimbecco, Balin e il leggendario Nineta, il più temuto e ricercato. Mi perdo in questa campagna. La tangenziale che corre parallela all’Adige mi sbarra la strada, invalicabile più del fiume. Guardo un casolare di mattoni rossi, semicoperto dalla scarpata del cavalcavia, e, a circondarlo, i regolari filari di pioppeti che ombreggiano di un insolito sole novembrino. Tutto, quaggiù, evoca il ricordo di un mondo contadino scomparso.Alla Cà Vecchia un capitello mi riporta l’eco della fede dei poveri che, con la fine della Repubblica di Venezia (a fine Settecento) insieme ai Francesi videro arrivare nuove tasse, requisizioni di beni per soddisfare le necessità dell’esercito e arruolamenti obbligatori di giovani mandati in giro per l’Europa a combattere le guerre di Napoleone. Quando, a Castagnaro, si assistette alla chiusura voluta dai Francesi delle congregazioni della Beata Vergine e di San Francesco d’Assisi e alla requisizione e svendita dei beni comunali, la gente si ribellò. Nel 1806 i briganti assaltarono il municipio e, devastatolo, bruciarono in piazza tutte le carte e i registri con cui chi comandava vessava i poveri, sempre più poveri.Ma ora cammino verso l’Adige. Alle porte di Castagnaro le sue acque defluivano in un canale chiamato Diversivo. Per controllarle, i Veneziani costruirono a fine Settecento il così detto Ponte della Rosta. Dall’argine su cui poggiano i suoi contrafforti, scendo allo specchio d’acqua del fiume che oggi, gonfio, pare un lago. Questa lama rifrangente il cielo divide la pianura veronese e mantovana da quella rodigina e padovana. Un confine invalicabile? Tutt’altro. Gli scambi, anche un tempo, erano frequenti e consuetudinari, grazie ai barconi che univano le due sponde. A Brazzetto, tra Begosso e Carpi, ne furono rubati sei che servirono a dei disertori per fuggire alle caserme austroungariche e così non essere mandati in guerra e piuttosto diventare briganti. Ieri, come oggi, i giovani disertano le guerre: possiamo davvero chiamarli traditori?Percorro il tracciato dell’antica Strada Bassa di Vigo che proseguiva fino a Badia Polesine. I briganti, che non dobbiamo immaginare certo come “ladri gentiluomini”, organizzati in bande assaltavano le diligenze e non disdegnavano depredare le case, come fecero nel 1809 a Villa Bartolomea. Corso Fraccaroli è un velario scenografico su cui sono dipinte, nel sole autunnale che le illumina come un proiettore teatrale, la chiesa di San Bartolomeo, la Biblioteca Comunale, il Teatro Sociale, le scuole elementari (torniamo a chiamarle così e aboliamo quel repellente Primarie!) e il municipio. È nel suo archivio che Francesco Occhi ha scovato le carte che dicono dell’assalto dei briganti nel 1809, quando requisirono quattro buoi, intimarono il sindaco di dar loro pane, formaggio e vino e rapirono perfino un gruppo di cittadini per portarli, prigionieri, a Legnago. È tra queste carte che venne rinvenuto il mandato d’arresto di 1822 di tale Francesco Neri, detto Nineta.«Te gh’en fe pì de Nineta», si dice ancora oggi a qualcuno che si prodighi a combinare guai. E chi lo sapeva che Nineta non era una ragazzina pestifera, come ho sempre immaginato, ma il nome di un famigerato brigante delle Basse?Nato a Isola Porcarizza (l’antico nome di Isola Rizza) Nineta appare nella descrizione del documento che ne chiede l’arresto come un giovane snello dai capelli lunghi e ricci, con fazzoletto rosso e tabarro bianco. Un brigante vestito di bianco: immagine leggendaria! E la leggenda vuole che Nineta, che usava assaltare le carovane da solo fingendosi a capo di una banda, non fosse mai stato arrestato, anche se sull’...
    Show More Show Less
    17 mins
  • Canale Biffis
    Nov 8 2025
    Cerco la riva dell’Adige. È alto il fiume, e color caffelatte. La sua mano possente porta con sé, insieme alle acque, i detriti degli ultimi giorni di pioggia. Spunto dal folto del fogliame sull’argine e mi affaccio sull’invaso chiuso da due paratie: l’una, con quattro luci, sbarra il corso del fiume, l’altra, con sei, devia la sua acqua nel canale in cui quassù, tra Ala e Avio, l’Adige si biforca. Cerco di immaginare il “pennello deviatore” costruito con cassoni pneumatici che divideva in due le acque. Era il 1929 e i lavori del Canale Biffis erano appena iniziati.Cammino nelle prime luci del giorno. Percorro la valle e constato quanto l’abbiamo scavata, segnata, manomessa. Strade e autostrade, ferrovie e canali rigano questo lembo di terra tra le montagne, si fanno largo tra i paesi e le contrade, tra i campi e le zone industriali. E L’Adige sembra dover cercare la sua via facendosi largo tra gli ostacoli postigli dall’Uomo. Eppure, novant’anni fa, riuscirono a prelevarne una lama d’acqua e a condurla, per 47 chilometri, dalla Bassa Vallagarina fino alle porte di Verona, in un canale che porta il nome di chi lo progettò, a inizio Novecento, Fernando Biffis, l’ingegnere che convinse le istituzioni a costruire un’opera che avrebbe permesso di irrigare i campi e di produrre elettricità. Gli abitanti dapprima osteggiarono l’apertura del mastodontico cantiere della SIME, la Società Idroelettrica del Medio Adige, che avrebbe potuto sconvolgere i ritmi e la vita della valle. Per placare le proteste si dovette arrivare, nel 1928, a un telegramma di Mussolini che intervenne di persona per «troncare ogni altro indugio e iniziare i lavori. Stop».Cerco, ad Avio, il centro sportivo dove un tempo vi era un campo di internamento per prigionieri di guerra. Erano croati, inglesi ma anche balcanici e russi. Lavoravano nel cantiere del Biffis insieme con gli operai del posto. I lavori, interrotti subito dopo l’avvio a causa della crisi economica del Ventinove, ripresero proprio allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale e alla costruzione del canale lavorarono così anche i prigionieri di guerra. Me li immagino nel fondo del grande fossato, armati non di fucili ma di picconi e badili, insieme con i valligiani che ogni giorno si presentavano all’alba sul cantiere. L’assunzione era facile: si arrivava in bicicletta, portando con sé gli attrezzi da lavoro e la gamella con il rancio appesa al manubrio, si accettavano dal capocantiere le condizioni di lavoro e si iniziava a scavare. Nel 1941 la paga variava tra le 1,15 e le 4,20 lire l’ora.La costruzione del Biffis cambiò il rapporto dei paesi con la valle. A Belluno Veronese il canale oggi abbraccia il paese e lo chiude sulla sua riva destra, con cinque ponti a scavalcarlo. Oltre agli uomini penso agli animali selvatici: come avranno attraversato questa barriera d’acqua? A Brentino cerco la Madonna della Corona. Eccola, lassù, a proteggere con la sua mano l’industriarsi degli uomini nella vallata. Gli operai del Biffis, quando la fede consolava la fatica del lavoro, giunti sul cantiere, alla vista della Corona si saranno levati il cappello e, con il Segno della Croce, avranno recitato un’Ave Maria. Poi il lavoro: sei milioni di metri cubi di scavi all’aperto e 650.000 in galleria, guadagnati a metro a metro con il sudore, non uscendo da quei buchi polverosi e bui nemmeno per il pranzo.Ecco, a Preabocco, prima della chiesetta di Santa Maria delle Grazie, che il Biffis si infila sottoterra. Dovrà oltrepassare la Chiusa di Ceraino, mantenendo la sua pendenza di appena 0,26 per mille, implacabile, inarrestabile, fino a scaricare le sue acque nelle tubature delle centrali idroelettriche a valle.Il Forte di San Marco, bastione a strapiombo sulla valle che pare inaccessibile, annuncia la terra del conteso confine. Prima gli Austriaci e poi gli Italiani costruirono forti qui, dove la valle si restringe, a Ceraino. Incurante delle mura costruite dagli uomini, l’acqua del Biffis percorre il buio del sottosuolo, rompe le rocce su cui posa il Forte Wohlgemuth di Rivoli, inganna questi confini che fecero combattere Napoleone e tutti gli altri come lui.Al suo riemergere di là della Chiusa di Ceraino, il canale non ha più ostacoli, ora è libero di correre verso la pianura. Alla Sega di Cavaion prende perfino il volo. Per fargli scavalcare la valle del Torrente Tasso, tra il 1941 e il 1943 costruirono un ponte di arconi e piloni di calcestruzzo armato a sostenere l’acqua del canale. Sotto l’impressionante arcata passava la vecchia linea ferroviaria Caprino Verona, dismessa nel 1959. Nelle foto pubblicate da Claudio Malini nel suo splendido libro sul Canale Biffis, si può vedere la vecchia locomotiva transitare accanto alle impalcature di legno del cantiere, tra lo sguardo degli operai che la chiamavano La Bigiona.A Piovezzano la grande scarpata in riva al fiume, rivestita di pietre moreniche, è decorata con motivi ...
    Show More Show Less
    18 mins
No reviews yet
In the spirit of reconciliation, Audible acknowledges the Traditional Custodians of country throughout Australia and their connections to land, sea and community. We pay our respect to their elders past and present and extend that respect to all Aboriginal and Torres Strait Islander peoples today.